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Dal disegno all’opera
Il titolo, volutamente, è memoria di una proposta formulata da Paolo Fossati, uno storico/critico che ha offerto negli anni settanta del secolo scorso, un contributo non indifferente a un dibattito non effimero sul fare arte nella contemporaneità. Richiamarlo in questa occasione suggerisce una ulteriore limatura, avendo i due termini a confronto “progetto” e “disegno” una valenza ambigua, significativa della loro centralità nel realizzare un’opera plastica: allora “opera come disegno”, come segnale capace di disciplinare l’ambiente degli esseri viventi.
La documentazione in pubblicazione di un lavoro artistico consistente per ampiezza cronologica, nella fattispecie dagli anni cinquanta del secolo scorso a oggi, presenta sempre una difficoltà insita nel valutare correttamente l’intervallo intercorso fra i primi esiti e quelli recenti, rispetto allo sviluppo interno della ricerca per evitare facili traiettorie avendo conoscenza del risultato finale.
Ma il ragionamento è analogo nel confronto fra il percorso dell’artista rispetto a un immaginario artistico che, parallelamente, si è dipanato come fenomeno emergente, poi declinante, poi eventualmente risorgente e con cui forzatamente si è in relazione. Vi sono percorsi di artisti particolarmente portati a “mutare” linguaggi e strumenti perché sensibili a quanto avviene all’esterno, anche a interpretare, suggerendo soluzioni, uno “spirito del tempo”.
Diversamente la via alla “figurazione” plastica di Romano Rizzato non è stata negli anni particolarmente incline a cogliere, delle diverse congiunture succedutesi nel tempo, gli aspetti più appariscenti, quanto è stata fedele a una riflessione sul proprio originale “fare immagine” a partire da una “unità di misura” con cui conoscere e dare senso alla superficie del quadro. Si tratta di una attenzione all’essenziale e non all’aneddoto, si badi non all’episodio perché sul tema della narratività Rizzato ha dedicato una parte non marginale del proprio operare, valutando connessioni formali alle soglie di un linguaggio della visione.
La ricerca di una strategia originale non vuol dire una estraneità rispetto a quanto diversamente proposto nel mondo delle arti plastiche, la chiusura al nuovo: eventualmente si è trattato di un aggiornare al proprio linguaggio i diversi stimoli che la contingenza può aver offerto perché il punto nevralgico dell’artista è stato quello di disegnare una misura dello spazio in cui lo spettatore si possa riconoscere come abile a misurarne le coordinate, uno spazio “finito”, quindi verificabile, un terreno “proprio”, scritto in una lingua che è matematica e geometrica, le stesse “parole” in cui è regolato l’universo.
Allora possiamo parlare di ipotesi dell’opera plastica come un “paesaggio”, con tutti i distinguo che le teorie – per fortuna le parole sono più cagionevoli delle immagini – possono avere prodotto per il Novecento, una temperie cronologica la cui seconda parte l’artista ha percorso con coerenza nei confronti degli strumenti linguistici e tecnici di volta adottati, ma con una singolare apertura per quanto via via si è proposto.
Quindi parlare di “paesaggio” può risultare interessante perché in esso si è andata, a partire dalle Avanguardie del primo Novecento, l’emancipazione della pittura dal ruolo di pura rappresentazione. Si tratta di una figura che registra quanto circonda e contemporaneamente quanto appartiene all’uomo: il soggetto che Rizzato coglie “dalla finestra” può andare dalla sicura scansione di piani dei primi esiti alla incertezza dell’oggi, dove proscenio e profondità, entrambi allusi, si contendono il primato dell’appariscenza.
Una lettura a distanza delle diverse stagioni dell’artista, agevole per una confidenza con l’operare di Rizzato nel corso degli anni, può agevolmente discutere dell’inquieta intelligenza dello spazio, quindi del luogo che è intorno a noi, quindi del nostro agire, quindi del nostro esserci, con interrogativi non disprezzabili sul senso di un disegno con cui l’uomo si misura. Se vi può essere una differenza, non tanto del lavoro quanto del modo di interpretarlo fra ieri e oggi, è la diversa sensibilità con cui, negli anni settanta si leggeva come “a se stante” l’opera, autonoma nel suo definirsi, e quella d’oggi, che invece si arricchisce di una ulteriore valenza, quella del senso “sociale” del fare arte, appunto per la collettività.
Si potrebbe leggere il percorso dell’artista come una scoperta progressiva dell’incertezza nel definire i contorni del “campo”, per usare un termine volutamente asettico utilizzato da Attilio Marcolli in una indagine didattica ai primi degli anni settanta del secolo scorso, poi adottato da Luciano Caramel in una iniziativa espositiva collettiva al Centro RS di Como nel 1974 in cui significativamente è invitato anche Rizzato.
Le opere presentate in questa edizione, su tela, su carta, definitive o schemi, schizzi, sono pertanto frutto di una rigida selezione, guidata dal desiderio di sottolineare la continuità di un lavoro che, svolto prevalentemente nell’ambito della cosiddetta “arte astratta” – gli esordi di Rizzato si collocano cronologicamente in una drastica conflittualità fra scelte linguistiche apparentemente divaricanti fra “figurativo” e “non”– può in realtà trovare nella nervatura di un fiore o nell’architettura di un edificio, significative affinità. Nell’evoluzione di un percorso espressivo, necessariamente il linguaggio si affina, produce riduzioni e sintesi, ma l’idea di fondo è la medesima.
I materiali documentati percorrono, con una partizione interpretativa delle diverse stagioni del lavoro evidentemente provvisoria, opere che vanno dagli anni cinquanta del XX secolo a oggi, un considerevole lasso di tempo che è costretto in una successione logico/temporale che è più una risorsa logica dell’interpretare che una effettiva illustrazione della ricerca in studio, fatta evidentemente di tentativi, di avanzamenti e di recuperi di opzioni tralasciate.
Ogni discorso è, appunto, forzatamente lineare, ha un inizio e una fine. Nel caso di Rizzato i mutamenti non sono scarti dal percorso principale ma arricchimenti, semplificazioni ma anche rimessa in discussione di quanto già acquisito: l’obiettivo di questa indagine è di suggerire che il percorso è solo apparentemente, o forzatamente unico, comunque frutto di scelte che magari non sono appariscenti ma costituiscono la sua ricchezza. Aver sottolineato nel titolo “dal disegno all’opera”, una ricerca complementare a quella della successione cronologica delle opere, è uno invito a rompere la consequenzialità per costruire un personale percorso di lettura.
P.S.
In sede di revisione del testo mi sono accorto che i critici e le occasioni citate hanno date lontane rispetto all’oggi: mi sembra che da una parte rispondano alla fase formativa e di definizione della ricerca dell’artista, in sintonia con le riflessioni più avvertite e interrogative del produrre artefatti plastici; dall’altra è il segnale che un dibattito sinteticamente accennato in queste righe sia stato esemplare e esauriente; ulteriore possibilità interpretativa è che la tendenza di oggi, ma anche di un recente passato, dell’operare come della critica, sia transitata suscitando o cogliendo altre valenze dell’espressività. Il lavoro documentato in queste pagine mi sembra segnali, nei fatti, cioè nelle opere, la vitalità del fare che sia ricerca e disciplina, con la libertà del primo protagonista a mettere in discussione, rimodellare la seconda.
Alberto Veca